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Una cosa fondamentale da non dimenticare mai Castighi e punizioni sono sensati in quanto rientrano nel progetto di favorire che i bambini imparino a comportarsi in modi adeguati e accettabili verso se stessi, verso gli altri e verso le cose. I bambini stanno imparando. Se stanno imparando, significa che non sono ancora capaci, non sono ancora in grado. È per questo che noi ci impegniamo ad insegnare a loro delle cose. È da aspettarsi che, anche dopo una punizione, non sappiano ancora assumere adeguatamente il comportamento che giustamente pretendiamo. Bisogna avere fermezza e costanza nell’indicare i comportamenti che pretendiamo vengano adottati e quelli che pretendiamo vengano corretti, ma dobbiamo avere anche un sufficiente grado di benevolenza, di comprensione e di rassegnazione. Ci vorrà un certo tempo prima che i bambini abbiano capito davvero e siano diventati capaci pienamente. Per questo non è il caso di impazzare con punizioni su punizioni. Dobbiamo saper anche pazientare, senza però mai venir meno ai nostri compiti educativi. Dannoso (e stupido) è l’atteggiamento riassunto dallo slogan (oggi troppo di moda) “tolleranza zero”, così come dannoso è l’atteggiamento che potremmo chiamare “tolleranza infinita, sempre”. Adeguato, invece, è un atteggiamento di equilibrio tra fermezza e tolleranza, purché sia curata la chiarezza nell’indicazione dei comportamenti richiesti e di quelli proibiti. Quando cominciare con le punizioni? Di fatto, succede subito, fin dall’inizio della vita. Per esempio, se il lattante morde il capezzolo della madre, succede ovviamente che questa si ritrae, e magari esclama qualche cosa. In un linguaggio comprensibile dal bambino, quello che la mamma fa è un messaggio veicolato da un’azione che può essere vista anche come una punizione: “Se fai così, ti sottraggo il piacere del contatto col mio seno. Devi capire che non devi proprio fare così”. È ovvio che le regole, e le rispettive sanzioni, sono differenti per i vari bambini prima di tutto secondo l’età: le loro capacità e competenze aumentano, e con esse è adeguato che noi aumentiamo le nostre pretese sul loro comportamento. Un bambino molto piccolo non è capace di dilazionare la soddisfazione di un bisogno o anche di un desiderio: non possiamo pretendere che lo faccia. Un bambino un po’ più grandicello può già cominciare a farlo, ma sarà difficile per lui, per esempio, avere chiaro in mente il concetto di giustizia e di uguaglianza nei diritti e nei doveri. Viene il tempo in cui questi concetti saranno per lui accessibili, e allora sarà buona cosa pretendere da lui comportamenti conseguenti. Quando? Sarà la sensibilità dei genitori, magari anche sostenuta dal confronto con gli altri genitori, col pediatra e con gli educatori dell’asilo nido, della scuola materna e della scuola elementare, media e superiore quella che potrà determinare i livelli accettabili per il propri figli momento per momento. E se, per una punizione, il bambino si dispera, sentendosi terribilmente colpevole, angosciato perché è convinto di avere irreparabilmente perduto la stima e l’amore dell’adulto che lo punisce? Dato che lo scopo è quello educativo, si tratta – semplicemente – di chiarirgli che ha fatto una cosa che non andava bene, che ora viene punito, e che, in questo modo, tutto finisce lì. Ci si vorrà bene ugualmente e tutto tornerà come prima, ma con una cosa in più: che lui avrà capito che in futuro dovrà cercare di comportarsi in modi differenti, più adeguati. Tutto qua. Senza strascichi e senza ombre. Anzi: il livello di stima e di amore potrà essere addirittura più elevato, perché lui avrà acquisito qualcosa di nuovo. Per finire: quali punizioni dare? Sarà compito vostro inventarvele, secondo lo stile relazionale e di vita vostro e della vostra famiglia. Io ho cercato di darvi alcune indicazioni generali. Vi sarebbe mai venuto in mente di chiedere quali premi dare? Ritengo che siate in grado di pensarci da soli, come per i premi, così per le punizioni. Come devono essere le punizioni 1. Per prima cosa, le punizioni devono essere finalizzate. Lo scopo delle punizioni deve essere sempre educativo: che il bambino capisca la regola, capisca l’importanza di quella regola e capisca la propria responsabilità soggettiva. Fa parte dell’educare ai doveri, al rispetto dei diritti degli altri, alla giustizia, alla reciproca solidarietà… È anche importante che capisca di essere non il Padre Eterno (con soverchianti responsabilità e illimitate pretese), ma un bambino in crescita, che ha da imparare i propri diritti e i propri doveri. 2. Le punizioni devono essere indirizzate a far modificare il comportamento, mai indirizzate verso le emozioni, i sentimenti o le fantasie. Noi possiamo modificare il nostro comportamento, per il quale siamo responsabili, ma nulla possiamo sulle nostre emozioni o le nostre fantasie. Sarebbe insensato punire un bambino perché è geloso, o perché è invidioso, o perché si è innamorato, o perché prova odio per un compagno prepotente o ingrato. Dobbiamo insegnargli a gestire le emozioni, non impedirgliele. Le emozioni sono come il colore dell’esperienza: non si può punire uno perché vede giallo, o verde o rosso. Quel che vede, vede. Allo stesso modo, ognuno vive le emozioni che vive. È chiaro che il bambino non può permettersi di buttare il fratellino giù dalla finestra perché ne è geloso o invidioso, ma questo proprio perché sono i comportamenti ad essere in questione, non i sentimenti che ne stanno alla base. 3. Le punizioni devono essere comprensibili, sia nella loro motivazione (“Ti punisco perché hai fatto questo e quello, che non dovevi fare”) sia nella loro esecuzione (“Per punizione dovrai fare questa cosa” o “dovrai non fare quest’altra cosa”) sia nel loro scopo (“… perché devi capire che quel comportamento non va proprio bene”). È indispensabile, inoltre, che siano dichiarate in modo esplicito come punizioni, altrimenti c’è il rischio che i bambini le possano prendere come eventi insensati o strani. 4. Le punizioni devono essere immediate. Facciamo un esempio semplice. Un signore sta portando a spasso il suo cane. Ad un certo punto, quello scappa via per i fatti propri. Il padrone lo richiama in modo risoluto, ma invano. Quando il cane ritorna, il padrone, per insegnargli che non deve scappare in quel modo, lo sgrida e lo minaccia con la mano. Nonostante questa “punizione”, è prevedibile che il giorno dopo quel cane scappi di nuovo nella stessa maniera. Perché? Per la non adeguata comprensibilità del messaggio. Quando ritornava indietro, infatti, il cane era tutto contento di ritrovare il padrone e di tornare a giocare con lui: si aspettava di essere accolto in modo altrettanto festante e giocoso. Non ricordava più di essere scappato via né ricordava più le parole di dissenso che avevano accompagnato il suo fuggire di prima. Quando il padrone lo sgrida e minaccia di picchiarlo, lui, semplicemente, non capisce. Pensa che il padrone sia un animale certe volte piuttosto bizzarro, da cui non sai bene cosa ci si debba aspettare. Lo stesso vale per i bambini. Bisogna sempre chiarire bene il perché li puniamo, altrimenti rischiamo di essere percepiti come insensati o bizzarri, e le nostre punizioni risultano inefficaci proprio sul piano educativo. Se la punizione è troppo tardiva, il rischio è che il bambino non ne capisca il senso, soprattutto se non glielo si spiega con chiarezza. Più il bambino è piccolo e più sono per lui incomprensibili le punizioni dilazionate, anche quando vengano spiegate ben bene. Non è una buona punizione quella del tipo: “La settimana prossima non andrai alla festa della tua amica”. Meglio sarebbe qualcosa del tipo: “Questo pomeriggio non guardi il primo quarto d’ora dei cartoni animati”. 5. Le punizioni devono essere accettabili. Non devono essere, per esempio, disgustose, crudeli, violente, interminabili, lesive della persona, derisorie. Ma non possono neppure essere impossibili. Non si può pretendere qualcosa che non è possibile a nessuno (come togliere una macchia indelebile, provocata per una sbadataggine sulla maglietta di un compagno); o che non è possibile specificamente per quel bambino (come potrebbe essere una “multa” superiore alle sue – limitate – “disponibilità finanziarie”); o che superi le sue capacità (come potrebbe essere imporre a un bambino di tre anni: “Dopo cena non vai a dormire fino a quando non hai lavato il pavimento”). La punizione deve essere indirizzata a mostrare al bambino che egli deve perché può tenere un certo comportamento che è adeguato al vivere civile e al suo livello di crescita. 6. Le punizioni devono essere proporzionate. Ricordo, molti anni fa, di aver avuto a che fare con due genitori che, immancabilmente per ogni inezia, comminavano ai loro tre bambini intere settimane senza televisione. Ogni volta che ci vedevamo, riportavano sempre la stessa musica, arrabbiatissimi perché, nonostante la pesantezza delle punizioni, i loro interventi “educativi” risultavano del tutto inefficaci. Li ho indotti a fare un po’ di conti, e si sono accorti con stupore che, sommando tutte le punizioni ricevute, i bambini avrebbero dovuto rimanere senza televisione per oltre sette mesi e mezzo di fila: uno sproposito. Per mitigarlo un poco, più e più volte erano poi intervenuti con “amnistie”, “indulti” e “patteggiamenti”, col risultato di vanificare tutto il sistema di regole, autorità, responsabilità personale, punizioni e – ciò che più conta – messaggi educativi. Il bambino deve sentire che la punizione è – fondamentalmente – giusta. Una punizione sproporzionata suscita una reazione contraria che può inglobare nel rifiuto l’ingiustizia patita e il messaggio pedagogico verso il quale la punizione era indirizzata. 7. Le punizioni devono essere il più possibile simboliche. La loro efficacia non è proporzionale al loro far male, né fisico né morale. La loro efficacia risiede non nell’entità del danno che procurano alla persona punita, ma nella loro sensatezza e nella loro capacità di mostrare che la legge e l’autorità che l’ha stabilita devono essere rispettate, e che esiste una responsabilità personale delle proprie azioni. È la disapprovazione esplicitata dal fatto stesso di essere punito quella che conta, non il tipo o l’entità della punizione. Anche nel mondo degli adulti (cui i bambini devono prepararsi) l’aumentare a dismisura le pene non ha mai scoraggiato nessuno. Anzi: più le pene sono terribili, e più è probabile che per occultare una colpa il reo commetta altri reati, magari più gravi di quello che vuole nascondere. 8. Le punizioni non devono danneggiare esperienze di vita importanti. Per esempio, non sarebbero buone punizioni quelle che proibissero di andare alla gita scolastica, o al campeggio con gli amici, o alla festa di un compagno, o alla caccia al tesoro, o alla lezione di musica o di pittura, o alle gare di ginnastica artistica, o simili. L’efficacia della punizione non risiede nel fatto che sia bruciante, ma nel suo essere segnale inequivocabile di disapprovazione di un comportamento fortemente inappropriato e indicazione di comportamenti alternativi adeguati. 9. Per essere efficaci, le punizioni devono essere poche. Una giornata che passa da una punizione all’altra non è vivibile, se il bambino prende sul serio le punizioni. Per poter sopravvivere, è probabile che arrivi ben presto a non prenderle sul serio, così che le punizioni diventano una specie di eventi folcloristici del tutto inutili. Il danno rischia di essere grave, perché quelle che vengono svalutate sono l’autorità e la credibilità dei genitori o degli educatori, cosa che rende difficile (ma non impossibile) ogni successivo recupero. Un bambino continuamente punito diventa un bambino disorientato, fondamentalmente ansioso, perché non sa che cosa deve fare o non fare, né sa costruirsi una scala di valori che gli dia una visione prospettica della vita. Ma anche un bambino mai punito diventa un bambino disorientato, deprivato di ogni scala di valori, con in più una serie di specifiche difficoltà nei rapporti con gli altri. Un bambino che sia, talvolta, anche punito può invece strutturare un senso di sé adeguatamente integrato con le proprie esigenze relazionali e sociali. 10. Le punizioni devono essere piccole, mai eccessive, e sempre correlate alle capacità (e quindi all’età). L’importante è che siano chiaramente connesse alla regola pre-stabilita, al fatto compiuto (azione od omissione che sia) che trasgrediva tale regola, alla necessità e all’aspettativa che il bambino capisca che nel futuro dovrà cercare di tenere un comportamento adeguato. È chiaro che, come le regole devono tener conto delle capacità comportamentali del bambino e quindi cambiano con l’età, così le punizioni saranno differenti secondo l’età. Per esempio, per un bambino di due anni sarà difficilissimo riuscire a non mettere le scarpe sul divano, mentre un ragazzo di dodici anni ne è perfettamente in grado. Le eventuali punizioni devono tener conto delle differenti capacità. 11. Nel dare una punizione, si deve indicare sempre le vie di uscita, chiarendo non solo che cosa il bambino deve fare per rimediare, ma accettando anche i tentativi di recupero del senso di sé e della propria autostima che il bambino cerca di compiere. Per esempio, se dice: “Ma non l’ho fatto apposta” può essere sensato accettarlo, ribadendo però l’intervento educativo. Per esempio, dicendo: “Va bene, non l’hai fatto apposta, però devi imparare lo stesso a non farlo. La punizione ti serve a ricordartelo”. Esigere che il bambino chieda scusa a chi ha danneggiato non deve essere presentato come una punizione, ma come l’indicazione di una via per riparare la “rottura” dell’armonia relazionale. Spesso può essere utile spiegare queste cose al bambino: non dobbiamo mai dimenticare che i nostri compiti sono educativi. 12. Se possibile e sensato (non sempre lo è), è meglio se la punizione è connessa con la riparazione dell’eventuale danno arrecato. Per esempio: “Non devi graffiare il fratellino, perché gli fai male. Adesso per punizione stai seduta sulla sedia per un minuto e mezzo. Poi, per fare la pace, gli dai un bacino. Alla fine, anche io ti darò un bacino, per dirti che tutto è finito e tutto ritorna come prima”. 13. Compiuta la punizione, l’interazione deve concludersi con la pacificazione e il perdono. “Adesso è finita. Lo so che tu hai capito. So che te lo ricorderai e che cercherai di fare come ti ho detto e di non fare più come avevi fatto”. Il bambino deve imparare che è possibile tornare a pieno titolo nel consesso sociale, e che la stima, l’amore e la bontà della relazione intera possono essere ripristinati e rinsaldati, perché in questione non è se lui sia o non sia degno di esistere, ma solo e soltanto il comportamento inappropriato che ha tenuto e quello appropriato che deve, invece, imparare a tenere. Per questo è fondamentale che gli vengano indicate le condizioni perché il suo comportamento possa rientrare nell’ambito di quelli approvabili. 14. Se possibile, almeno certe volte, l’interazione attivata dalla punizione deve contenere anche un incoraggiamento verso il futuro. Lo scopo, infatti, è che il bambino impari a comportarsi bene, non che sia castigato, né che soffra. La punizione è sempre un mezzo, mai uno scopo. 15. Le punizioni devono esplicitamente non mirare all’umiliazione. Spesso è inevitabile che una certa quota di umiliazione sia vissuta dal bambino messo in castigo, soprattutto quando viene punito di fronte agli altri (compagni d’asilo o di scuola, fratelli e sorelle, amici e amiche). Ma dovrebbe risultare chiaro, magari dicendolo esplicitamente, che lo scopo della punizione non è che il bambino sia umiliato davanti agli altri, ma solo che capisca bene e impari che cosa deve fare e che cosa non deve fare. Particolare attenzione deve essere posta a proteggerlo dall’umiliazione di fronte agli amici, soprattutto all’amico o all’amica del cuore. In ogni caso, mai deve essere squalificato con affermazioni perentorie e definitive su di lui e non sul suo comportamento, quali: “Tu sei solo cattivo”; “Non imparerai mai”; “Finirai delinquente”; “Sei nato per la mia disperazione”; o simili. 16. Le punizioni non sono una vendetta. Questo punto dev’essere ben chiaro più ancora nel comportamento che nelle parole dell’educatore, altrimenti il messaggio principale che passa rischia di essere diseducativo, qualcosa del tipo: “Quando qualcuno fa qualche cosa che non ti va, fa come faccio io adesso con te: vendicati”. La punizione, invece, deve essere un provvedimento di un’autorità severa, ma giusta. 17. In quanto espressione dell’autorità e della giustizia e in quanto richiamo ai doveri e alla responsabilità, le punizioni non devono mai essere contrattate. Una volta stabilite, devono essere portate a compimento. Bisogna pretenderlo, con semplicità e fermezza. Inoltre, una volta comminata una punizione, bisogna tener duro, per non mandare messaggi contraddittori che non farebbero altro che creare confusione e discredito proprio su quelle regole e su quell’autorità (e su quell’esigenza di responsabilità da assumere da parte del bambino) che invece vorrebbero valorizzare. Anche per questo è necessario essere parchi nel dare punizioni: poche, piccole, simboliche, ma chiare e ben ferme. Credo che sia chiaro a tutti che non dobbiamo entrare in circuiti di litigio con i nostri figli: lo spirito educativo (non solo quello attivato al momento delle punizioni) verrebbe gravemente compromesso. Se ci si accorge che si è entrati in un litigio, conviene fermarsi subito: “Stop. Adesso basta. Ne parliamo fra mezz’ora. Adesso sono troppo arrabbiato”. In questo modo, oltre tutto, si dà un buon esempio di come si può fare a gestire adeguatamente la propria rabbia, sospendendo il contatto, per poi riprenderlo non appena ci si è sufficientemente acquietati. 18. Le punizioni non devono mai riguardare il mangiare, il dormire, le cure della persona e le funzioni vitali in genere. Non è mai il caso di minacciare (né, a maggior ragione, di dare) punizioni del tipo: “Guarda che ti mando a letto senza cena”; “Se non stai bravo, ti faccio mangiare gli spinaci”; “Fila subito a dormire, perché sei stato cattivo”; “Quella parolaccia non la devi dire. Adesso vai subito a lavarti i denti” (ah, il simbolismo…); “Adesso stai lì due minuti su un piede solo, senza respirare” (sì sì: succede anche questo…). Punire prescrivendo o proibendo funzioni vitali o cure della persona, comprese quelle igieniche, potrebbe favorire delle “fissazioni”, per esempio: sul mangiare (possibili premesse di bulimia o di anoressia); sul dormire (insonnia oppure uso del dormire come modo per “addormentare” conflitti e tensioni); sulle cure igieniche (trascuratezza reattiva o eccessi ossessivi); e, comunque, stati di angoscia diffusi o ricorrenti, che magari ri-esploderanno parecchi anni dopo, apparendo come “insensati” e “immotivati”. Che cosa sono le punizioni Anche le punizioni fanno parte del processo educativo Le punizioni sono l’uso della forza nel processo educativo. Sono una specie di “sottolineatura” di una regola comportamentale già precedentemente sancita che non è stata seguita. È resa necessaria per comunicare con chiarezza fondamentalmente due cose: che la regola che non è stata seguita è importante e imprescindibile; e che la responsabilità di attenersi a quella regola importante è propria del soggetto (del bambino, nel nostro caso). A questo punto è utile una breve divagazione, per un inquadramento generale. Il processo di civilizzazione dell’umanità è andato di pari passo con la progressiva centralizzazione del diritto-dovere dell’uso della forza nel dirimere le controversie fra i singoli o i gruppi. Progressivamente, è stato sempre più sancito che nessuno ha il diritto di farsi giustizia da sé e, più ancora, che nessuno può vendicarsi per un torto subito né può sopraffare o punire nessuno con iniziativa privata; ma che tutti devono sottostare alle leggi e che spetta al potere centrale comminare le pene per chi disobbedisce ad esse o comunque non vi si attiene. Via via è stata sempre meno accettabile la “legge della jungla”, secondo la quale è permesso a tutti di essere violenti con tutti, in modo tale che chi prevale è solo il più forte; mentre è stato sempre più convenuto e stabilito che tutti sono uguali davanti alla legge, e che chiunque la viola viene punito da un apposito organo delle stato: la magistratura. Ogni sottrazione di qualcuno al potere delle leggi, così come ogni deroga alla centralizzazione del diritto-dovere di esercizio della forza, è un passo indietro nel processo di civilizzazione. È chiaro che, all’interno della famiglia, il diritto-dovere di sancire le leggi e di farle rispettare spetta ai genitori, così come spetta a loro definire e comminare le punizioni. I figli, fin tanto che sono minorenni, possono discutere, criticare, obiettare, fare pressioni per far modificare, ma non spetta loro né stabilire le leggi che regolano la convivenza civile né usare la violenza per determinare il corso delle vicende relazionali. Vi sono genitori che, pensando di far bene, si impegnano ad evitare ai loro figli ogni tipo di dispiacere, per cui non chiedono né pretendono nulla da loro. L’intento loro non è educativo (cioè favorire che i bambini si attrezzino ad affrontare adeguatamente la vita), ma è quello di rendere felici i figli momento per momento. Il risultato, però, è quello di crescere dei piccoli odiosissimi dittatori, incapaci di un sano e fruttuoso vivere sociale, che non riescono ad impegnarsi in nulla che non sia il perseguimento del loro immediato interesse, che non sopportano frustrazioni e difficoltà, incapaci di rispettare gli altri e di farsi rispettare in modi reciprocamente accettabili. Bambini gravemente danneggiati nelle loro capacità di vivere la dimensione sociale, incapaci di vivere relazioni paritarie, cooperative, progettuali. Incapaci, in definitiva, di amare e di farsi amare. Bambini, alla fin fine, prepotenti e infelici. Anche le punizioni fanno parte del processo educativo. Conviene, quindi, che sappiamo orientarci, per poterle usare in modo avveduto, sensato e utile. Dei castighi e delle pene Fa un certo effetto metterci a parlare di castighi e punizioni, proprio noi, che cerchiamo sistematicamente di patrocinare atteggiamenti che tendano a valorizzare i nostri figli attraverso la crescita delle loro capacità di affermazione di se stessi. È che, per imparare a vivere bene, è necessario imparare anche a rispettare gli altri al pari di se stessi, imparare a conoscere e rispettare le regole del buon vivere civile e imparare a sopportare dei limiti per realizzare un benessere di più alto livello. In questi processi di apprendimento alla socialità, le punizioni, insieme con molte altre cose, c’entrano. Nessuno di noi vuole un ritorno alla terribile “pedagogia nera” di fine Ottocento. È chiaro che, per favorire lo sviluppo personale e sociale, un apprezzamento positivo sincero e un incoraggiamento partecipe valgono molto di più che non una punizione: sono molto più efficaci. Ma una cosa non esclude l’altra. A volte, infatti, anche le punizioni sono, più ancora che necessarie, realmente indispensabili, purché siano sensate e abbiano alcune caratteristiche. Cerchiamo di orientarci. Nel corso del processo di crescita, fra le innumerevoli altre cose, i bambini devono imparare a coesistere adeguatamente con gli altri esseri umani, bambini o adulti che siano. Nei fatti, la coesistenza piacevole, cooperativa o anche solo pacifica non può realizzarsi da sola in modo automatico: deve essere attivamente perseguita, costruita, coltivata, conservata e vivificata. Perché essa si realizzi, è indispensabile le maturazione di alcune capacità nei singoli bambini, fra cui le più importanti sono: - la capacità di segnalare agli altri in modo chiaro ed efficace i propri bisogni e desideri; - la capacità di cogliere in modo adeguato i desideri e i bisogni degli altri; - la disponibilità e la capacità di arrivare a costruire delle mediazioni, accettabili sia da parte di se stessi che da parte degli altri; - la capacità empatica, cioè la capacità di cogliere lo stato d’animo degli altri, “mettendosi nei loro panni”; - la capacità di sopportare limiti e frustrazioni, in vista di un migliore, più diffuso benessere. Si potrebbe immaginare che, in una società teorica ideale, queste capacità personali e relazionali fondamentali possano essere sufficienti, ma così non è nei rapporti reali. Oltre tutto, in ogni momento, per ogni questione, piccola o grande, bisognerebbe inventarsi come fare e come non fare, ricominciando da zero continuamente la contrattazione relazionale, quanto meno con uno sfinimento esasperante. Conviene che, per alcune cose fondamentali e per alcune situazioni-tipo, ci si metta d’accordo anticipatamente una volta per tutte, definendo e accettando delle regole. Bisogna, inoltre, riconoscere e accettare che il mondo non sta iniziando adesso, ma che esiste da parecchio tempo: i nostri antenati hanno già definito delle regole, che spesso sono ben collaudate e che, comunque, noi abbiamo trovato già definite e già vincolanti. Certo, noi possiamo contribuire a modificare queste regole, ma per fortuna non ci troviamo a dover reinventare tutto da capo in ogni momento. I diretti antenati dei nostri figli siamo noi. Siamo noi, quindi, coloro che hanno la responsabilità di veicolare verso di loro le regole sociali che possono favorire coesistenze pacifiche, piacevoli e cooperative. I nostri bambini hanno, ovviamente, la possibilità di dire la loro e di far pressioni affinché le regole possano essere modificate, ma la responsabilità di scegliere e di sancire le regole sociali da adottare è e sarà nostra. Siamo noi (genitori, insegnanti, educatori) le persone competenti a dire come ci si deve comportare per tendere al benessere di tutti e alla coesistenza pacifica di tutti. Non c’è socializzazione se non ci sono regole. Certo, la socializzazione riguarda molteplici aspetti della relazionalità globale, quindi va molto al di là dei ristretti ambiti delle regole; ma le regole – le leggi – sono indispensabili per l’acquisizione, il mantenimento e il progresso della socializzazione. Ma le regole – tutte le regole – sono una burletta se non contemplano anche un’autorità che le faccia rispettare e le sanzioni per chi trasgredisce, cioè le punizioni. Possiamo, quindi, affermare che non può esserci socializzazione senza che siano previste anche le punizioni. Purtroppo. Ma è così. Spesso i genitori si sentono in colpa quando devono esercitare la loro autorità: pensano di far soffrire “inutilmente” i bambini, ma sembrano non sapere che i bambini sono rassicurati se sentono di poter contare su un’autorità attenta, giusta, partecipe e chiara, cha dà indicazioni comprensibili, che pretende sensatamente, che riconosce i meriti e le buone qualità, che sa orientare nei comportamenti e che è ferma e severa nell’esigere. Sgridare sì, ma poi fare la pace Compito dei genitori non è rendere felici i figli Così pensa un bambino. I bambini, quando ci sentono arrabbiati, soprattutto se siamo arrabbiati con loro, pensano che davvero non li amiamo più. E quando li sgridiamo, pensano che davvero non li stimiamo più. Per loro, la condizione di essere davvero non più amati o non più stimati è insopportabile. Se non arriva un segnale che le cose sono cambiate, pensano che rimarranno per sempre non più amati né più stimati. I bambini hanno poca esperienza di vita, per cui tendono a prender le cose in modo assoluto. "Bello", "buono" e "giusto" per loro coincidono, così come "brutto", "cattivo" e "ingiusto". Se una cosa è bella, per loro sarà "bellissima". Se è brutta, sarà "bruttissima". Se si sentono amati, si sentiranno amati in modo assoluto. Ugualmente se si sentono non amati: non amati in modo assoluto. Quando li sgridiamo o li puniamo, si sentono percepiti da noi come una cosa "cattiva". Totalmente "cattiva". Per sempre "cattiva". Pensano davvero che non li ameremo mai più, e che il nostro non-amore sia totale, assoluto, perenne. Per un bambino, questa convinzione è letteralmente disperante. I "capricci" che allora fa (urlare fino a diventare paonazzo, battere i piedi gridando proteste, rotolarsi e battere la testa per terra...) possono essere gesti di disperazione di chi si sente perduto. Perduto per sempre. E se, come spesso succede a quel punto, il bambino viene di nuovo e maggiormente sgridato e umiliato per i "capricci" che sta facendo, è probabile che si convinca che davvero non sarà mai più amato, perché davvero è - irreparabilmente e totalmente - "cattivo". Contemporaneamente sentirà "cattivo" in modo irreparabile, totale e perenne anche il genitore che "non lo ama più". Mai sgridare i bambini, allora? Mai punirli? Per carità è necessario che i bambini conoscano e accettino i propri limiti, che imparino a riconoscere e rispettare sì le proprie esigenze, ma anche quelle altrui. E imparino che, per il buon vivere sociale e relazionale, spesso è necessario limitare le proprie pretese, arrivando a delle mediazioni. è indispensabile che sappiano riconoscere il valore dell’autorità, quando è giusta, e riescano ad accettare che essa non solo definisca le regole giuste, ma che le sappia anche far rispettare. Per questo è necessario talvolta sgridarli e talvolta anche punirli. Senza fare tragedie. Compito dei genitori, infatti, non è quello di rendere felici i figli, né di evitar loro frustrazioni o dispiaceri, ma è quello di favorire che essi si attrezzino ad affrontare adeguatamente la loro vita, nel rispetto di se stessi e degli altri, per realizzarsi al meglio. Scopo dello sgridare o punire un bambino è quello di fargli capire che bisogna non comportarsi in certi modi "cattivi" o inopportuni, e che invece bisogna comportarsi in altri modi "buoni" od opportuni. L’importante è capirsi. Quando il messaggio è arrivato ed è stato capito, basta. Non c’è bisogno di infierire, di fargli del male o di vendicarci perché ci ha deluso o addolorato. L’importante è che capisca e prenda sul serio il messaggio. è superfluo o addirittura dannoso attivare un sistema di premi e punizioni per ottenere che i nostri figli si comportino nei modi che noi riteniamo più opportuni. Altro è far festa perché ha fatto qualcosa di buono, altro è cercare di ricattarlo, facendogli luccicare promesse di premi o punizioni. Deve essere chiaro, magari dicendoglielo esplicitamente, che non è lui che è "cattivo", ma che è quella data azione (od omissione) che è "cattiva". Quando lui fa quella data azione od omissione, lui fa il cattivo. E noi lo sgridiamo non perché lui sia cattivo, ma perché ha fatto una cosa che non è buona (o non ha fatto una cosa buona dovuta). Basta che adotti altri comportamenti, e tutto torna a posto. Bisogna contestualizzare le cose per poterle relativizzare: non si tratta mai del "male assoluto" (né, quindi, della "punizione assoluta"), ma sempre di quella delimitata azione, compiuta in quel dato momento. Si deve, poi,"fare la pace". Constatato che il messaggio è arrivato ed è stato capito e preso sul serio, bisogna dichiarare chiuso l’incidente, lasciando sempre aperta una via di uscita. "Va bene: adesso hai capito, e non lo farai più"; oppure: "Ma sì, lo so che non volevi. Adesso hai capito. La prossima volta ci farai più attenzione"; o anche: "Lo so che tu sei buono, ma questa che hai fatto è proprio una cattiveria. So che l’hai capito e che non la farai più". E i capricci? Se l’atteggiamento dei genitori è sufficientemente serio, fermo, amorevole, non ricattatorio, rispettoso di se stessi e del bambino, è difficile che ci si trovi impantanati nei "capricci". Se ci si entra, può esser difficile trovare una via di uscita dal circuito malefatta - sgridata - punizione - disperazione - "capriccio" - sgridata - punizione maggiore - disperazione maggiore - "capriccio" maggiore in un crescendo inarrestabile, dove il "capriccio", misconosciuto nelle sue componenti di disperazione, assume soltanto il valore di malefatta ancora più grande, che esige una punizione ancora più grande, che getta in una disperazione ancora più grande, che induce ad un "capriccio" ancora più grande, e così via, fino a quando le energie di uno dei contendenti si esauriscono. è necessaria un’azione che funzioni come elemento di rottura del circolo chiuso. Due esempi. Si può dirgli in modo chiaro, fermo, forte, tranquillo (bisogna riuscirci...) che lui è in grado di farsela passare, che è bene che vada di là e stia un poco per conto suo, e che, quando se l’è fatta passare, potrà tornare e si potrà parlerà insieme dell’accaduto. L’altra (più difficile) è dirgli che non è vero che lui è cattivo, non è vero che noi lo odiamo, non è vero che non c’è scampo: gli vogliamo sempre bene, ma vogliamo - e lo vogliamo proprio - che lui questo e quello non lo faccia. Tutto qua. E che sappiamo che lui può capire e che può non farlo più. Che per fare la pace basta poco. E che noi siamo disposti a far pace già adesso. Per finire, tre raccomandazioni: mai umiliarlo, mai infierire su di lui, mai sgridarlo per le sue emozioni. Le emozioni "giuste" sono quelle che uno vive, non si può comandare alle proprie emozioni. Non si può pretendere che uno viva certe emozioni o non ne viva altre. Si possono pretendere dei comportamenti, non dei vissuti. Sarà sensato sgridare eventualmente per un comportamento sbagliato; mai, per nessun motivo, per un’emozione vissuta. Un esempio: è insensato sgridare uno (bambino o adulto) perché è geloso o invidioso. Non si può pretendere che non lo sia. Si può e si deve invece pretendere che non faccia del male ad altri perché è geloso o invidioso. Il bambino sgridato si sente non più amato.Per evitare che si senta irreparabilmente "cattivo" bisogna prevedere una via di recupero e una riconciliazione. I "capricci" sono eventi relazionali che spesso nascono dalla disperazione e innescano circuiti penosi, difficili da rompere. Mai umiliare un bambino, per nessuna ragione. Di Paolo Roccato (da UPPA – Un pediatra per amico)

 

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